Skip to main content

Paper Magazine [30-09-2009]

Brandon Flowers dei The Killers è uno dei front man che stanno regnando attualmente nella musica pop. Negli anni che hanno seguito il debutto glam-rock tre volte di platino della band di Las Vegas, Hot Fuss nel 2004, Flowers ha calcato meno la mano con l’eyeliner ed è diventato padre due volte. La band si è anche guardata dentro, con due album più introspettivi e ridotti rispetto al primo. Flowers, un pochino ingenuo, un pochino cattivo ragazzo, ha recentemente colto lo sguardo ammirante e ossessivo dell’artista Elizabeth Peyton, che ha dipinto miriadi di musicisti maschili nel corso degli anni (David Bowie, Kurt Cobain, Eminem, Jarvis Cocker, tra gli altri). Soggetto delle recenti retrospettive al New Museum e alla Whitechapel Gallery, Peyton dipinge ritratti intimi e dolcemente idealizzati dei suoi amici e idoli, usando colori vibranti e luminosi come gioielli. E dato che Peyton ha sempre scattato foto, spesso usandole come fonte di materiale per i suoi dipinti (l’anno scorso The Aldrich Contemporary Art Museum ha anche organizzato un sondaggio su queste foto), le abbiamo chiesto di fare un servizio fotografico alla sua nuova scoperta per la nostra intervista principale. Con nostro piacere, ha accettato. Ecco Peyton che intervista e fotografa la sua musa.

Ad inizio Luglio ero a Londra e ho visto che i The Killers dovevano suonare alla Royal Albert Hall. Non so cosa stavo facendo a metà di questo decennio, ma in qualche modo non li avevo mai sentiti, ma ho pensato che fossero speciali per poter suonare là. E così ci sono andata. Sono stata rapita dalla grandezza della musica già dalla prima canzone: era melodica, antemica, enorme, e poi c’era la bellezza disarmante e la ferocia della voce del cantante Brandon Flowers. Cantava come se in gioco ci fosse la sua vita. Nello spazio di poco tempo ogni essere umano in quella stanza era connesso a lui, in piedi, con le mani in aria, saltando su e giù. Tutti sapevano tutte le parole di tutte le canzoni – tranne me. Ma le sto imparando.

Brandon Flowers ha una passione e individualità che sprizzano America da tutti i pori, in senso positivo. Le sue canzoni parlano di amore, vita, morte e uomini dallo spazio, e come Walt Whitman e Bruce Springsteen, irradia gioia di essere vivo e umano.

Qual è la tua canzone preferita dei Beatles?
In My Life.

Quando e dove sei nato?
Sono nato il 21 Giugno 1981, ad Henderson, Nevada.

Quali sono le tue parole preferite?
Enigma, deserto e Ammon – è il nome di mio figlio.

Cosa significa il titolo del vostro primo album, Hot Fuss?
Deriva da un momento molto specifico e che non posso dire.

In realtà dici di più non dicendolo…Com’è stata la prima volta che hai incontrato i tuoi compagni di band?
È successo uno alla volta. All’inizio c’eravamo io e Dave (Keuning), e si, è stato esaltante incontrare qualcuno a Las Vegas a cui piacevano alcune delle stesse band che piacevano a me, perché non ci sono molte opportunità per la grande musica a Las Vegas. È stato esaltante incontrare persone che conoscevano i Talking Heads e gli Smiths. Per quanto possa sembrare una pazzia, le persone a cui piacevano quelle band erano davvero diverse dalla solita gente di Las Vegas.

Ho letto che la prima canzone che avete scritto assieme è stata Mr. Brightside. La prima volta che l’avete suonata, vi siete tutti guardati negli occhi dicendo, “Oh mio dio, da dove viene?“?
Beh, Dave aveva la linea di chitarra e non avevamo ancora un batterista. Volevo questo tono uniforme, poi ci ho aggiunto un ritornello, e non credo sapessi quanto esaltante fosse prima di suonarla con un batterista. Appena ci abbiamo aggiunto la batteria è stato davvero esaltante. Mi sono sentito proprio bene.

Se ci si basa sul testo, pare che Mr. Brightside parli di una ragazza che ti ha fatto le corna, ma è stato un bene perché ti ha dato la libertà di conseguire il tuo destino – di essere in una grande rock band. Sapevi a quel tempo, quando l’hai scritta, quanto grandi sareste diventati?
No, era così esaltante suonare nei bar. Avevamo grandi aspirazioni, ma sapevo di avere molto da imparare.

Eri felice da giovane?
Ero molto felice.

Sembri così dolce a carino, ma poi quando canti sembra come una valanga di qualsiasi tipo di emozione. Ci sono tante canzoni così. A volte sono così delicate e poi è come se sputassi fuori fuoco. Ti sorprendi della tua voce?
Mi ricordo la prima volta che ho iniziato a capire che aveva questa potenza, era dopo Hot Fuss, durante il tour del secondo album, Sam’s Town. Ci furono delle recensioni orribili dell’album e dovevamo portare in tour quelle canzoni.

Non è possibile, è un album incredibile.
Cresci e cominci a conoscere Rolling Stone e Spin. Mio fratello aveva NME e Spin sul muro con Morrissey in copertina. Non puoi fare a meno che prestare attenzione ai giornali. Spin ha dato due stelle a Sam’s Town. È stato uno shock perché noi lo adoravamo, pensavamo fosse fantastico. Ma questo ha fatto sì, e sono grato di ciò, che si accendesse un fuoco in noi che non c’era durante Hot Fuss. Quando abbiamo portato in tour Hot Fuss, cercavamo di essere fighi e di non sbagliare, ma per Sam’s Town suonavamo come se ci fossero in gioco le nostre vite, per mostrare ad ogni giornalista che sarebbe venuto quella sera che l’album era buono, e ho iniziato a cantare e a spingere con la voce. Siamo diventati una buona band live.

È fantastico che una band che ha venduto sette milioni di dischi dice che si è sono dovuta veramente dar da fare. Devi prenderti cura della tua voce in qualche modo speciale?
Si, ho smesso di fumare. Mi sentivo sempre in colpa quando lo facevo, ma sapevo anche che mi faceva male, e smettere mi ha aiutato molto. Appena ho smesso, ho iniziato a prendere lezioni per la voce.

In quel video da David Letterman che continuo a vedere, in cui cantate A Dustland Fairytale, la tua voce è sempre di più.
Credo che molto sia dovuto alle lezioni.

Sembra come se il vostro primo disco sia più Europeo, e poi avete messo un po’ più di America in Sam’s Town, e ora con il vostro disco più recente, Day & Age, è come se foste andati nello spazio.
Si, è una bella interpretazione. È lo stesso modo in cui vedo la band. Eravamo tutti molto influenzati dalla musica inglese: i Cure, i Depeche Mode, gli Smiths, i Beatles, gli Stones, gli U2. E credo avesse veramente un forte impatto su di noi. Ma crescendo abbiamo tutti capito che dovevamo essere diversi da quello che eravamo una volta, perché quello che eravamo non andava troppo bene. Così abbiamo indossato dei completi, e io ho cercato di essere Richard Butler o chiunque altro – e funzionava. Poi siamo andati là – non eravamo mai stati in Inghilterra o in Europa – e quando ci siamo stati abbiamo capito che non eravamo come queste persone. Quindi è stato uno bello shock. E non c’è niente contro di loro, ma non voglio essere come loro. Sono Americano. E così abbiamo dovuto fare un passo indietro. Sam’s Town cercava di essere un po’ più onesto. E a causa della sua onestà le persone dicevano che sembrava artificioso a causa del primo album. È stato tutto un gran caos. Lo spazio è una specie di territorio neutrale – e noi adesso siamo là.

Credo che il vostro nuovo album sia da un certo punto di vista come Help! dei Beatles, cioè una reazione al successo, di voler scomparire. Sei d’accordo?
Cerco di starci lontano – anche se sono sicuro che è riuscito ad entrarci – perché sennò molte persone non si identificheranno. Non voglio che parli, nello specifico, di avere troppo successo e aver ottenuto qualsiasi tipo di fama. Porto ancora fuori la spazzatura e passo l’aspirapolvere, cambio i pannolini di mio figlio. Credo che siamo con i piedi ancora ben per terra.

Il nuovo album è molto più spirituale, ma non da un punto di vista religioso. Racchiude un mondo più grande, ed è buio.
Beh, la madre di Dave è morta quando stavamo facendo l’album, quindi è una cosa che ci è rimasta impressa, credo. E mia madre ha avuto un cancro al cervello, e le avevano dato solo sette mesi di vita, ma è passato ormai un anno e mezzo. Anche avere dei figli, è strano quello che ti succede. È una cosa eccitante e meravigliosa, ma – credo che succeda quasi a tutti – capisci subito che dovrai morire. Non so perché.

La tua esperienza con la musica è simile a quella che hai con la religione?
Credo siano molto diverse, ma capisco perché le persone le possano confondere. Se non hai una religione, capisco che la musica possa prenderne lo spazio. Non sto dicendo che Dio mi ha messo qui per farlo, ma credo in Dio, e credo che la musica sia un regalo.

Di cosa parla la canzone Human? E quando dici “Are we human, or are we dancer“, perché hai usato “dancer” al singolare?
Sarebbe potuto anche essere “dancers“. Per me aveva senso che fosse “dancer“. Non mi ero reso conto che avrebbe sollevato così tante discussioni.

È una cosa astratta.
Credo lo sia. Mi piaceva per questo. Credevo che le persone lo avrebbero capito. Ma in realtà…

Ha creato un sacco di dubbi.
Mi ha un po’ deluso. Credevo andasse bene. Per me aveva un senso, e capisco che sia diverso. Quando Bowie ha fatto qualcosa di astratto, nessuno lo ha messo in dubbio.

Beh, a volte bisogna lasciare alle persone il tempo per mettersi alla pari. Probabilmente Human finirà con l’avere senso per le persone. Tu guardi avanti, ma qualcuno non vuol che tu cambi. Cambiamo soggetto: come ti senti quando finisci un concerto? Ho notato che esci dal palco abbastanza velocemente.
Hai visto The Wrestler? Ecco come mi sento quando finisco. Raggiungo zoppicante il camerino, mi siedo e se sono ancora esaltato posso anche mettermi a fare un po’ di flessioni. Ma di solito quando è un concerto molto buono e sono esausto, mi butto su un divano.

A Jones Beach, il pubblico ha avuto delle reazioni molto diverse rispetto al pubblico Europeo, e sembrava che non ti saresti dato pace finche tutti i presenti non ti avesser seguito. È una responsabilità che senti di avere?
Credo che dipenda dal fatto che siamo stato un po’ viziati dal pubblico che c’è là, ma voglio anche capire perché non sono così entusiasti, e così non posso renderli entusiasti, ma ci provo. Alla fine lo erano tutti. Ci ho messo un’ora e mezzo (ride). Ma ho notato che, non importa quanto bene o male sia andato il concerto, quando finisce All These Things That I’ve Done o When You Were Young, è come se fosse messo un cerotto alla ferita, va tutto bene.

Com’è stato suonare Thunder Road con Bruce Springsteen al Pinkpop Festival lo scorso Maggio? Sapevi già che avresti cantato con lui?
Non l’ho saputo così tanto prima. L’ho saputo un paio di ore prima, e la cosa più surreale è che sono entrato nel suo camerino solo con una chitarra acustica, e abbiamo deciso chi avrebbe cantato quale parte, ed è stato anche più speciale per me. È stato surreale, ma è stato anche qualcosa che ho sempre sognato così tante volte che non è stato troppo travolgente. Sono riuscito a fare bene il mio dovere lassù.

Quando sei in studio con i The Killers, si tratta di una democrazia o di una dittatura?
(Ride) Abbiamo tutti risposte diverse. Ma è una democrazia. Credo che a volte impongo troppo il mio modo di pensare, ma non succede sempre, quindi non è sicuramente una dittatura.

La band ha un messaggio?
Non abbiamo nessun messaggio specifico o causa che portiamo avanti, a parte le canzoni. Non abbiamo mai preso posizione sulle cose che succedono nel mondo. Non so se un giorno, quando saremo più vecchi, questa cosa cambierà, ma non credo.

Sai già quando inizierete a registrare nuove canzoni?
Ne abbiamo sempre di nuove. Credo che tutti noi vogliamo prenderci una bella pausa dopo quest’album.

Ti piace essere in tour così spesso?
Beh, stavolta abbiamo queste pause molto più lunghe per stare a casa, quindi siamo viziati. Siamo viziati quando siamo in tour. Conosco persone che sono state in tour quanto noi e non avevano questi bei tourbus o hotel – non è così male…

Sei stanco?
No.

FontePaper Magazine