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The Irish Times [22-09-2017]

Brandon Flowers e Ronnie Vannucci Jr parlano delle ambizioni degli inizi e del lavoro con il produttore irlandese Jacknife Lee per il loro nuovo album

ll batterista dei Killers, Ronnie Vannucci Jr, entra lentamente nel bar dell’hotel. Ha una presenza formidabile, un uomo muscoloso con una barba incolta, che indossa una maglietta bianca consumata, jeans sfilacciati e scarpe da ginnastica.

Mostra un atteggiamento visibilmente pratico mentre si siede ad un piccolo tavolo quadrato. Qualche secondo più tardi, il cantante della band, Brandon Flowers, prende posto al suo fianco.

Flowers è l’opposto del suo compagno di band dal punto di vista fisico – magro, vestito elegante e curato (giacca nera, camicia nera con piccoli ferri di cavallo bianchi, jeans neri, stivali neri da cowboy a punta, capelli scuri). Ha il modo di fare di qualcuno che respira aria fresca dopo mesi di prigionia in un bunker.

A lavoro finito sul loro nuovo album, Wonderful Wonderful, c’è la sensazione che stia per iniziare una nuova fase nella vita della band. L’album precedente, Battle Born del 2012 (il titolo viene dal nome dello studio di registrazione della band in Nevada; le parole appaiono anche nella bandiera di stato del Nevada), ha venduto più di un milione di copie, quindi non ha sicuramente avuto lo stesso successo del loro debutto, Hot Fuss del 2004 (oltre sette milioni) e del successivo, Sam’s Town del 2006 (quasi cinque milioni). Questa mancanza di successo commerciale è stata in parte attribuita, dice Flowers, ad un obiettivo mal definito.

L’album ha forse sofferto significativamente della sindrome dei troppi cuochi in cucina, dato che ha avuto cinque produttori, ognuno dei quali con una propria specifica esperienza: Steve Lillywhite, Brendan O’Brien, Daniel Lanois, Damian Taylor e Stuart Price. Per il nuovo album, hanno aggiustato il tiro.

“È stato importante avere solo una persona stavolta,” dice Flowers. “Non mi oppongo ad un team di persone, ma nell’ultimo album c’erano un paio di canzoni con questo e un paio con l’altro. È stata una buona cosa avere qualcuno a bordo che fosse pronto a lavorare sull’intero album.”

Quel qualcuno era l’acclamato produttore dublinese Jacknife Lee, che, osserva Vannucci, è riuscito a portare le canzoni della band “in cima alla montagna”.

Cos’hanno visto quando sono arrivati lassù? “Un senso di orgoglio quando abbiamo sentito l’album intero,” dice Vannucci. “Una bella vista, ma con poco ossigeno,” dice Flowers, un po’ astratto.

Tendenze anglofile

Molto è cambiato per la band da quando si sono formati in Nevada nel 2002. Nel 2001, quando è andato ad un concerto degli Oasis nella sua città, le tendenze anglofile di Flowers si sono messe a fuoco, e la sua determinazione di diventare una rock star galvanizzata. In pure stile Magnifici Sette, ha raccolto i suoi compagni di band attorno a lui. La prima canzone che lui e il chitarrista Dave Keuning hanno scritto assieme è stata Mr Brightside, ma è passato un po’ di tempo prima che le cose abbiano iniziato ad andare per il verso giusto.

“L’ambizione precisa era di diventare una grande band,” ricorda Flowers, “ma non credo che avessimo capito che ci sarebbe voluto del tempo, e sarebbe stato in maniera incrementale. E anche quanto lavoro avrebbe richiesto. Pensi solo all’obiettivo che vuoi raggiungere, o vedi certe band e sai che vuoi essere come loro, senza capire cosa serva per arrivare fin lì. Abbiamo avuto delle sorprese lungo la strada, come succede a tutti.”

Che tipo?

“Non avere idea di quanto saremmo dovuti stare in tour. E fare video! Quando eravamo ancora un’ingenua band che cercava di uscire dai confini del Nevada, neanche pensavamo ai video. Non sarebbe stata la cosa che ci sarebbe piaciuto di più fare al mondo. Non parlo molto sul palco, nel senso di chiacchierare con il pubblico, ma questa è un’altra cosa a cui non pensavo quando abbiamo iniziato – un coinvolgimento con il pubblico che deve essere fatto. Red carpet? Siamo terribili a farli, ma non vieni a conoscenza di queste cose finché non ci arrivi.”

“Quando sei un bambino, suonare una chitarra immaginaria in mutande, di fronte allo specchio,” dice Vannucci, il fornitore di un’immagine che è adesso ben fissata nella mia mente, “stare su un red carpet non è una cosa a cui generalmente pensi. Dove ci troviamo adesso, e dove stiamo da un po’ di tempo, è molto più dinamico di quanto era un tempo.”

La strada dai bar del Nevada ai palchi mondiali non è stata senza ostacoli, dice Flowers, eppure le difficoltà e il duro lavoro hanno trasformato la band. “Il successo non arriva in modo naturale. Non sarebbe mai stato così, ed è una cosa a cui non pensi quando vedi tutte le band lì fuori – hanno dovuto combattere per ottenerlo.”

‘Piccole tortuosità’

Vannucci descrive le impreviste aggiunte di auto promozione che derivano dal successo commerciale come “piccole tortuosità”, ma dice con convinzione che sin dall’inizio i Killers “hanno sempre suonato come se lo stessero facendo di fronte a migliaia di persone. Magari c’erano 13 persone in un bar sport in una zona residenziale di Las Vegas, ma facevamo finta – sempre per finta – di suonare in un’arena. È una delle cose che ci ha permesso di essere notati. Al tempo, era di moda camminare sul palco, con le sembianze di uno che ha appena finito di tagliare l’erba, e metterti la chitarra a tracolla. Era come se fosse figo mostrare che non te ne fregava niente. Costantemente.”

È vero, conferma Vannucci, che inizialmente nessuna etichetta statunitense volesse saperne niente dei Killers. Una lezione nell’industria discografica imparata presto.

“Era una cosa piuttosto strana,” ricorda. “È successo tutto nel giro di tre mesi nel o attorno al 2002 – abbiamo presentato la nostra musica dal vivo a tante etichette, abbiamo viaggiato a Los Angeles e New York, suonando sei canzoni. A volte richiamavano, ma nella maggior parte dei casi non lo facevano. Lo abbiamo fatto per circa un paio di mesi negli Stati Uniti, ma poi siamo andati in Regno Unito, abbiamo suonato cinque concerti, hanno fatto delle recensioni e, abbiamo firmato praticamente subito. Quando siamo tornati a casa, tutte le etichette che prima non ci avevano voluti erano ai nostri piedi.”

Quella lezione di vita ha rafforzato la determinazione della band o – come succede in alcuni casi – ha indebolito la loro convinzione? “Oh, ci ha resi davvero più saggi,” afferma Vannucci. “Non ci ha assolutamente rallentato, ma ci ha fatto dubitare di alcune persone con cui avevamo a che fare, se davvero stessero facendo di tutto per lavorare con noi e per noi. Direi che siamo diventati subito un po’ cinici e prudenti.”

Succede che il giorno in cui incontriamo Vannucci e Flowers vengono annunciate le loro due date irlandesi. Flowers nota, senza incoraggiamento, che l’Irlanda è stata “uno dei primi posti che ci ha accettati per come siano, quindi abbiamo una specie di folgorante comprensione, un rispetto reciproco, credo, e abbiamo sempre fatto degli ottimi concerti qui.”

“Ci sono stati dei posti o Paesi in cui ti va bene una volta e male la successiva, ma è sempre stato un successo a Dublino, sempre divertente. E andiamo sempre nello stesso ristorante – il posto dove vanno un sacco di attori.”

Guarda Vannucci cercando aiuto per ricordarsi quale, ma il suo compagno di band alza le spalle. “Lo conosci,” Flowers guarda verso di me. “Hanno un sacco di foto di attori sulle pareti. È molto vicino a Grafton Street.”

Deve essere il Trocadero, dico. “È quello! Ci andiamo dopo ogni concerto che suoniamo a Dublino. Stanno aperti un po’ di più per noi, ed è sempre bello – una tradizione per noi.”

I Killers allo stato brado a Dublino? Prenotate subito.

The Killers e Jacknife Lee – il Collegamente Irlandese

Ronnie Vannucci Jr: “Il modo di fare e di porsi di Lee sono stati entusiasmanti – è stato un mix tra facilitatore, cheerleader e Navy Seal. È una palla di energia brillante e positiva, e piuttosto creativo. È anche supponente, ma ce n’è bisogno con una band. E poi, da produttore, cerchi di non sollevare un polverone, ma preferisci mettere al comando una persona che dice certe cose su certe canzoni. È stato bello avere qualcuno che aveva qualcosa da dire su ogni canzone e che conosceva i nostri lavori precedenti. È anche molto incoraggiante, e il suo credere che tutto sia possibile è stato cruciale in studio. Non eravamo d’accordo con le cose che diceva? A volte, ma facendolo ha creato una dinamica di dare-avere, e si è quindi aperta una discussione – indipendentemente da chi avesse torto o ragione. Questa è una buona indicazione che arriverai al posto giusto.”

FonteThe Irish Times