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Q Magazine [03-2007]

Il frontman dei Killers: mormone, dispensatore di profilattici, e vuole lavarsi la biancheria da solo.

Manchester Apollo. A soundcheck terminato, Brandon Flowers vuole farsi il bucato. Flowers è sicuramente uno dei personaggi più singolari del mondo del rock: un mormone abitante di una piccola cittadina che ha trovato la sua salvezza in Morrissey. Con la sua band, i Killers, ha riportato nella musica rock una duplice dose di glamour e melodrammaticità: prima con la nonchalance inglese dell’album di debutto, Hot Fuss, e poi con la super passione tutta americana del suo successore, Sam’s Town.
La notorietà, ovviamente, gli consente di essere eccentrico. Quindi stasera vuole farsi il bucato da solo. Ma non può farlo l’hotel per lui? “Non mi piace” dice a bassa voce, ridacchiando. Fuori dal palco è un po’ timido, magro, sottile, con la sua giacca nera e i suoi pantaloni a sigaretta. C’è stato un inconveniente in un hotel a Barcelona, non si fida più degli “addetti al bucato” degli alberghi.

Per concludere il soundcheck, la band rovina Romeo and Juliet dei Dire Straits. Il chitarrista Dave Keuning ha problemi con la sua parte; la voce di Flowers è roca. Si è preso un virus durante i vari spostamenti (Romeo and Juliet è un’altra forma di eccentricità melodrammatica; Flowers sa che non è una canzone trendy, ma la adora).

Poco dopo, attraversiamo mezza città e ci avviciniamo alla MEN arena, dove George Michael si sta esibendo in questi giorni (ma questo è il suo giorno di riposo). C’è una lavanderia a gettoni qui. Flowers carica pazientemente la lavatrice gigante con calzini e biancheria intima e preme pulsanti.
Considerate le manie che di solito hanno le star, questa è affascinante. Gli piace fare le cose da sé. Lo aiuta a non montarsi la testa, assieme alle telefonate alla moglie Tana. In Hot Fuss, Flowers sembrava un uomo cresciuto in una piccola cittadina che si diverte a scoprire le stranezze metropolitane; in Sam’s Town, che ha come sfondo la natìa Las Vegas, si parla del ritorno a casa, del ragazzo strano che ha fatto il bravo, e che prova a salvarsi.
Accesa la lavatrice, si siede, tossendo piano.

Hai smesso di bere. Cosa ti ha spinto a farlo?
Non lo so. Ho anche smesso di fumare. Da tre settimane.

E ti sei preso la tosse. Un classico, no?
È come se il corpo si stesse purificando… è dura. Sento l’odore delle sigarette di quelli della troupe. Hanno un odore così buono!

Ma cosa ti ha portato a smettere di bere?
Forse perché causava molto dolore a mia moglie e alla sua famiglia. E le giungono certe storie alle orecchie. E mia madre ha vissuto questa cosa con mio padre.

Tuo padre era stato un alcolista prima di convertirsi alla religione, giusto?
Sì.

In una vostra canzone, This River Is Wild, c’è quest’idea di un qualcosa che ti trascina giù, che cerca di affondarti. C’entra con tuo padre e la sua dipendenza dall’alcol?
In realtà non pensavo a lui… penso parli anche un po’ di lui, ma soprattutto parla del superamento delle difficoltà e di trasformazioni.

Ti è pesata molto questa cosa? C’è chi dice che l’alcolismo sia genetico.
Sì… e il padre di mio padre era alcolista. È strano pensare che ce l’abbia nel DNA, ma secondo me è vero. Forse lo uso come scusante, che non è decisamente la cosa migliore da fare. Cioè, è un bell’espediente.

Ti manca l’alcol quindi?
(ride rumorosamente) È più difficile dormire la notte.

Avete scritto una canzone natalizia scaricabile da iTunes, A Great Big Sled, per RED, la fondazione benefica di Bono. Hai detto di averla scritta in sogno. Non è la prima volta, vero?
No, infatti. Salvador Dalì si metteva delle monete in mano prima di andare a dormire, così si svegliava appena stava per addormentarsi, o roba del genere. Ho sognato intere canzoni, o alcune parti, assoli, cori. Enterlude è stata l’unica che ho ricordato bene al risveglio. È strano. E divertente.

Fare un album “Americano” significa che vi siete allontanati dall’Inghilterra?
“Album americano” è ridicolo perché la musica la sento molto inglese. Vorrei tanto sapere cosa avrebbe pensato la gente se non avessi detto che ascoltavo Bruce Springsteen quando abbiamo cominciato a scriverlo.

Scommetto che vorresti anche sapere cosa avrebbe pensato la gente se tu non l’avessi definito “uno dei migliori album degli ultimi vent’anni”.
Ha ha! Sì. Mi dispiace che sia nata una polemica violenta ma è uno dei migliori album degli ultimi 20 anni. Non è un commento ridicolo.

Hot Fuss aveva un gusto decisamente Europeo, e siete venuti in tour in Europa in un momento in cui l’anti-americanismo era al suo massimo storico per via della guerra. Ti ha fatto riflettere sul significato dell’essere Americano oggi?
Diciamo. In realtà è cominciata anche prima del tour. Non avevo un passaporto, prima di venire qui. Nessuno aveva mai lasciato gli States… E facendolo ci siamo resi conto di che americani siamo. Ma poi ho notato il modo in cui venivo trattato. Mi rifiuto di dire “Fanculo!” sul palco, e mi rifiuto decisamente di dire “Fanculo George Bush“. Quando c’è una marea di gente, dici ‘fanculo’ e diventi un grande ai loro occhi. Puoi essere la band che apre il concerto e ricevere un’accoglienza maggiore rispetto ai Killers se dici ‘fanculo’. È troppo semplice. Quindi mi rifiuto di dirlo. E vedo band che dicono, testuali parole, “Scusateci se siamo Americani…“.

Sei cresciuto a Nephi, una piccola cittadina dello Utah, e hai scoperto l’inghilterra con Morrissey e i Pet Shop Boys. Come te lo immaginavi il Regno Unito?
Sinceramente non so spiegarlo. Me la immaginavo parecchio nuvolosa. Non lo so, mi sembrava magica. Adesso ho capito che la sentivo così perché era così lontana e irraggiungibile.

Dovevi essere dell’opinione che Nephi fosse opprimente; ti sei trasferito a Las Vegas quando avevi 16 anni.
E infatti lo era. Solo recentemente a Nephi è stato installato il primo semaforo. Non c’era nessuno con cui potevo condividere qualcosa. Avevo degli amici, ma nel momento in cui scoprii la musica cominciai a sentirmi distante da loro. Non ero un reietto, non è che qualcuno sia stato cattivo con me, è solo che non volevo andare a vedere i concerti dei Korn. Odiavo gli Offspring. Non dimenticherò mai mia madre che mi cucina l’ultima cena a casa. Fu difficile.

Ma comunque non ti fece cambiare idea…
No, ma fu orribile. A Las Vegas non andava poi così meglio, comunque (ride). Passai da una scuola con 350 studenti a una che ne aveva 3000, che era stata concepita come penitenziario. C’erano un sacco di gang di ragazzi. C’erano i bloods eccetera. I messicani erano fan di Morrissey (che infatti ha un cospicuo gruppo di scatenati fan latino americani). Portavano i capelli alla pompadour, mi salutavano quando mi vedevano con una maglietta di Morrissey ma erano anche violenti, quindi tenevo le distanze. Era divertente.

Ma a te la violenza interessa, nonostante tutto. Hai scritto quattro canzoni su degli omicidi: Jenny was a friend of mine, Midnight Show, Leave the Bourbon on the Shelf e Where is She? (L’ultima riguarda un vero omicidio, quello di Jodi Jones, una ragazzina scozzese, ed è stata esclusa da Sam’s Town per via di alcune obiezioni fatte dalla famiglia della ragazza).
So perfettamente da cosa deriva. “I love the romance of crime” (“Amo l’elemento romantico dei crimini”, da Sister I’m a Poet di Morrissey). Da quel verso…crescere ascoltandola di continuo…non posso sfuggirgli. Morrissey possiede un pezzo del mio cervello.

Ha niente a che fare col fatto che Nephi è una di quelle città dove non succede mai niente?
Sì. La cosa più eclatante successa durante la mia permanenza lì fu il furto di una macchina. In sette anni. Una macchina.

E non hanno mai scoperto che eri stato tu a rubarla?
Già. E la guido ancora (ride)

Cosa ti ha deluso di più quando sei arrivato in Inghilterra?
Non sapevo cosa aspettarmi. Il nostro primo viaggio lì fu fantastico. Nel settembre 2003…e alloggiavamo al Columbia Hotel, quindi ero al settimo cielo. Pensavo, “Gli Oasis ci hanno scritto una canzone su questo posto!” Non mi ha deluso nulla, solo ho realizzato che è un posto con gente…

…come voi.
Sì, ma voi scrivete quelle canzoni accattivanti… Perché voi inglesi siete così?

Perché amiamo la musica pop. In America i critici hanno paura della musica pop. Il Rolling Stone disprezza tutto ciò che è troppo popolare.
Il Rolling Stone? Ha dato più stelle a Paris Hilton che a noi.

Cercano solo di essere postmoderni.
(ride) Sono disgustato, sconvolto.

Bruce Springsteen è stata un’ispirazione per questo album. Lui è un animale politico. Ma tu non lo sei.
No. Non credo di saperne abbastanza. È un bel peso da caricare sulle spalle. È già difficile andare avanti senza cadere. Dobbiamo ancora dimostrare molto. Voglio che Sam’s Town venda più dischi di Hot Fuss, anche solo per dimostrare a Rolling Stone che ha torto (ride).

O forse hai delle opinioni politiche poco benviste dalla società che ti vergogni di esprimere?
No, decisamente no, non direi. Ogni sera salgo su un palco cantando “Qualcuno mi ha detto che avevi un ragazzo che somigliava a una ragazza“, quindi…

Tu ammiri Bono; lui si sente piuttosto a suo agio nel parlare di politica.
Ma forse lo farò fra qualche tempo. Io sono uno che solo adesso per la prima volta nella sua vita è riuscito a farsi crescere la barba, quindi…

I tuoi barba e baffi sono stati oggetto di parecchie discussioni…
Hah… già.

Te la aspettavi tutta questa attenzione?
No. Penso sia una cosa buona però. Quando passerà il periodo Sam’s Town, me li taglierò, li metterò in una busta e li spedirò a Neil Tennant (cantante dei Pet Shop Boys) (Tennant aveva messo in guardia Flowers che farsi crescere barba e baffi era un vano tentativo di essere preso sul serio come artista).

Gli hotel sono uno dei temi di Sam’s Town. Vi circondano, a Las Vegas. Ci lavoravate. I vostri concerti iniziano con Enterlude, che dice “We hope you enjoy your stay…
È dappertutto quella frase. Non so quante volte ho letto “We hope you enjoy your stay with us” quindi inserirla nell’album ci è sembrata una cosa molto sensata.

Gli hotel sono bizzarri. Sono come fuori da ogni collocazione geografica e ogni regola etica. L’hai notato quando lavoravi come facchino a Las Vegas?
Sì, succedevano un sacco di cose. C’erano servizi che offrivano prostitute e accompagnatrici. Protettori. Gente strana. Cioè, è un mondo strano. Bastoni da passeggio, Cadillac, cappotti viola. Una volta un tizio ha tentato il suicidio. Si è sparato in un occhio; strisciava nei corridoi urlando. Ma io non mi sono imbattuto in lui, non l’ho visto.

Sembrano scene da teatro.
Sì, e le ho viste. Una volta un ospite mi ha chiamato dicendo, “Puoi comprarmi dei preservativi?” …entrare nella stanza…gente sui letti…non avevo mai visto niente del genere.

Hai preso una bella mancia?
Sì, mi diede 20 dollari.

Las Vegas è la patria del peccato carnale. Hai mai esplorato quel mondo?
Ci ho provato, non ci sono riuscito. Andavo in giro con mio cugino, andavamo ai concerti o in piscina. Per qualche ragione era molto più divertente e molto meno stressante dell’andare a caccia di ragazze.

E le droghe?
Ho provato qualcosa, ma niente di che. Non sono mai diventato dipendente da qualcosa. Quando hai 14 anni, cominci ad ascoltare Bob Marley, devi provare la marijuana. È una regola. Adesso so che mi fa diventare apatico e non mi piace quella sensazione. (pausa) Avevo 15 anni. Facevo lo spavaldo.

Ma da Mormone quale sei non saresti dovuto andare in “missione” in un Paese straniero, bussando alle porte…?
Sì. È qualcosa che in teoria si dovrebbe fare. Se hai 19 anni e sei meritevole, è automatico. Mio fratello è andato in Cile. Io a 19 anni avevo appena comprato Hunky Dory. Incontro di continuo gente che dice “Sono mormone“, come per dire “Sono stato educato come mormone e sono figo“. Non sanno che io sono ancora credente. Penso sia molto utile mettere in dubbio delle cose a un certo punto. Ora ho superato quella fase e per me tutto è molto più importante rispetto a come lo sarebbe stato se fossi andato in missione.

Vuoi rendere i Killers una delle band più importanti del mondo. Ma sei anche sposato (sua moglie Tana si è convertita al mormonismo) e vuoi avere dei bambini. È difficile conciliare queste due ambizioni?
Sì, ma sto imparando a fare ciò che mi rende felice e ciò che rende mia moglie felice, perché ovviamente c’è qualcosa che fa sì che io voglia farlo. Io lascerei tutto se lei me lo chiedesse – cosa che non farebbe mai. Voglio essere un navigatore. Le terre emerse sono già state tutte esplorate, non c’è più nulla da scoprire, quindi diciamo che io sono alla ricerca di canzoni.

Il mormonismo è percepito come anti-gay. Tutto ciò che va contro la procreazione è considerato opera del diavolo. Ma tu sei affascinato dalla cultura pop gay; tra i tuoi fan ci sono Neil Tennant e Elton John.
Io in realtà non ci penso. Non giudico nessuno. Per qualche motivo penso di essere sempre stato un fan di pop star gay. Il momento più felice della mia vita è stato quando io e mio padre siamo andati a San Francisco in macchina nella nostra Geo Metro (è una Chevrolet) ascoltando Elton John, Otis Redding e Buddy Holly. Li ascoltavamo di continuo. Goodbye Yellow Brick Road e Daniel. Sono state la colonna sonora del momento più felice della mia vita. Non m’importava se Elton fosse gay… o non lo sapevo.

Alcuni fan dicevano che tu fossi gay – fin quando il tuo matrimonio ha in un certo senso smentito il tutto. Come hai vissuto la cosa?
Sentivo che stavo facendo il mio lavoro! Sono un grande fan di David Bowie e Morrissey. Ho dato anch’io il mio contributo. E poi… non so, è finita lì. Ho scoperto quanto bisogna lavorarci su per mandare avanti una storia del genere. C’è chi l’ha fatto, io non voglio farlo. L’ho provato per un album e mi è bastato! (ride) Quindi perdonatemi, io amo mia moglie. Se intendo avere dei bambini, non è il comportamento ideale da assumere. (pausa) Non l’ho nemmeno fatto di proposito, è successo e basta.

Tre giorni dopo, a Newcastle, Flowers sembra a disagio riguardo l’ultima parte dell’intervista che abbiamo fatto a Manchester. “Tutta quella storia sulla religione e i gay. Ho molti amici gay. Voglio stare lontano dall’argomento religioso. Non voglio offendere nessuno” dice, cautamente. Sa che è un terreno pericoloso. Sta cercando di essere il più onesto e aperto possibile, ma è difficile.

Nei giorni successivi al nostro primo incontro era giunta la notizia di un possibile duetto dei Killers con Johnny Borrell, per coverizzare una canzone dei Dire Straits. “È una cosa tutt’altro che certa“, dice Flowers. “Dipende se riusciamo a finire la canzone e se lui se la sente di farla“. Hanno appena finito di provarla di nuovo; in questi due giorni è decisamente scattato qualcosa. Troviamo una stanzetta nel backstage per poter continuare l’intervista.

I giornalisti definiscono gli altri componenti dei Killers “il ricciuto”, “il beato” e “il malinconico”.
Sì (ride), secondo me ci avete azzeccato. Abbiamo quattro personalità molto diverse. Ronnie è vispo e divertente, Mark è silenzioso – è vero che è un po’ scontroso. E Dave è una specie di futuro astronauta. La sua testa è già nello spazio. Sta solo aspettando di portarci anche il corpo. È su una lista per fare un viaggio nello spazio.

Vuole fare il turista spaziale? Che bella ambizione.
Sì, ma non per me. Non mi piacciono gli aerei.

Nonostante tu sia abbastanza timido a volte, vieni descritto come un arrogante.
Siamo ambiziosi, e la gente non è più abituata a questo atteggiamento. Crescendo ti dicono che tutto è possibile, che puoi chiedere anche la luna. Ma quando ci riesci ti bacchettano. È strano. Vogliono che tu non lo dia a vedere.

Nel 2005 sei salito sul palco con gli U2 quando hanno suonato a Las Vegas. Cosa si prova quando canti sul palco assieme a Bono?
Mamma mia, mi sembrava di stare sulle montagne russe. Abbiamo venduto un sacco di copie, abbiamo registrato l’album con Flood e se gli U2 vengono in tour nella nostra città ci basta chiamare qualcuno per andarci. L’ultima volta che ho visto un concerto degli U2 ho pagato un biglietto 100$ da un bagarino! E quattro anni dopo sto in un bar con Bono e gli altri. “Perché non vieni al soundcheck domani? Poi decidiamo che canzone fare“.
Non so spiegare come…(pausa) si diventa così immuni.
Gli U2 sono straordinari. Sono adorabili. E sapevano quale fosse la mia preferita tra le loro canzoni. Non c’è niente da fare. Quella è la canzone che mette mia moglie quando torno a casa – assieme a Home and Dry dei Pet Shop Boys. La mette appena torno, è la mia canzone. E mi sono ritrovato a cantarla con Bono e mia moglie era lì in prima fila a guardarmi.

È noto che hai incontrato Morrissey quando lavoravi al ristorante Spago a Las Vegas. Ma devono per forza esserci stati altri clienti famosi oltre a lui.
Sì, ho servito Céline Dion, Mike Tyson, il reverendo Al Sharpton.

Questi incontri ti hanno insegnato qualcosa sulla celebrità?
All’epoca non avevo capito cosa mi aveva insegnato l’incontro con Morrissey, ma adesso sì. Non si è comportato male con me, ma i suoi bodyguard sì. Adesso so che è ridicolo portare una pizza a qualcuno e dirgli quanto lo adori. Quando sei ragazzo, non te ne rendi conto. Adesso sto attento a non mettere in imbarazzo le persone che mi si avvicinano.

Ti sei sentito in imbarazzo quella volta?
Ovvio. Poi andò nel privé, mi ha visto mentre preparavo un tè freddo o tagliavo il pane in cucina. Serrammo entrambi gli occhi e spostammo lo sguardo altrove. Probabilmente stava guardando cosa facevo con quel coltello. Ora capisco.

Quella sera, col suo completo raffinato da cowboy, sotto le lampadine bianche che formano la scritta “Sam’s Town”, i Killers rapiscono il pubblico di Newcastle; Flowers, un po’ personaggio carnevalesco, un po’ Dio del rock, è elettrizzante. Ma se c’è sempre un po’ di tensione nelle sue performance, è perché lui non è mai come noi ci aspettiamo che sia. È un vero eccentrico; la sua notorietà a maggior ragione di grande effetto per quel sottile senso di disagio che mostra nella sua brillante e lunatica tecnica. Mantiene un certo distacco durante tutta l’esibizione; si intuisce il motivo del suo amore per il controverso Morrissey.

Dopo Exitlude si ferma prima di lasciare il palco: “Sento provenire tanto affetto da voi qui a Newcastle” dice. “Se avessi il tempo, verrei giù ad abbracciarvi uno ad uno” conclude, in maniera non del tutto convincente.