Skip to main content

Rolling Stone Mexico [02-2013]

Brandon Flowers e Mark Stoermer, parti fondamentali del gruppo, ricordano ciò che è stato “Battle Born” e celebrano con noi la loro imminente visita nel nostro Paese.

Battle Born è uno studio di proprietà dei Killers ed è ubicato relativamente vicino al centro di Las Vegas. È un po’ piccolo, il soffitto non è molto alto, la stanza di controllo è abbastanza modesta, ma in generale è molto comodo e piacevole.
Nella sala di controllo incontro un Brandon Flowers (voce e tastiere) vestito in maniera semplice e senza dubbio impeccabile – pantaloni, giacca di jeans, e camicia bianca. C’è anche Mark Stoermer (basso), che veste in modo più casual. L’anno scorso è uscito il loro album di successo Battle Born e i Killers verranno nel nostro paese il prossimo Aprile.

Secondo voi Las Vegas è una città completamente fuori controllo?
BF: È strano, perché la particolarità di questo posto è qualcosa che la gente non nota fino a quando non scopre le caratteristiche della vita locale. Per noi era normale vedere le slot machine nei supermercati, così come gli spettacoli che mostravano donne poco vestite. Adesso mi rendo conto che queste cose possano sembrare molto strane per altri, ma a noi sembrava normalissimo. Siamo cresciuti qui e io e Mark abbiamo frequentato lo stesso liceo. Anche Mark Slaughter, il cantante degli Slaughter, ha frequentato quella scuola.

Quindi dato che vi sentite a casa pensate di rimanere qui?
BF: Per ora sì, ma non si sa mai.

È inevitabile diventare giocatori d’azzardo quando si vive qui?
MS: Penso ci siano due modi di vedere la faccenda. Per noi il gioco è un qualcosa di così quotidiano che semplicemente non sentiamo il bisogno di provare, perché ci si perde troppo tempo. Qui lo si realizza già da bambini, e solo una piccola percentuale della popolazione si sente attratta dal gioco. Ma mi sembra che il resto del mondo la pensi in maniera opposta.

Esiste una subcultura nella città, per quanto riguarda il genere alternative?
BF: Non proprio, solo momenti e mode che vanno e vengono. Nel nostro caso, locali come la House of Blues e l’Hard Rock Cafè ci permettevano di vedere le band che venivano a suonare qui. Si poteva andare a vedere i propri gruppi preferiti dal vivo in locali abbastanza intimi. Non hanno mai suonato in arene qui, ma in luoghi che tengono circa 1500 persone. Ed è sempre stato un qualcosa di emozionante. Per esempio in California i Depeche Mode suonano al Rose Bowl, ma a Las Vegas hai Dave Gahan davanti al naso. Anche i Cure o Morrissey hanno sempre suonato in luoghi piccoli.

A proposito di questi nomi britannici, all’inizio della vostra carriera siete stati descritti come la migliore band inglese che veniva dall’America, ma adesso non avete più nulla a che vedere con quello stile. Cos’è cambiato?
BF: Le nostre radici musicali e le nostre influenze continuano ad essere britanniche, e nessuno mai potrà cambiarle, ma senza dubbio abbiamo beneficiato dell’aggiunta di ingredienti nuovi. Cresci e scopri elementi che, dal punto di vista degli altri contribuiscono a creare un suono nuovo. Siamo cresciuti qui, ma col passare del tempo abbiamo visitato altri posti e ascoltato musica nuova. Adesso si sono aggiunte altre influenze nordamericane, quindi siamo una mescolanza abbastanza strana di cose molto diverse fra loro.

Ho letto che gli Oasis sono stati la band che ti ha davvero aperto gli occhi, musicalmente parlando. Cosa c’è di vero?
BF: Nella band siamo tutti fan degli Oasis. Nel mio caso c’è un momento specifico, il loro concerto all’Hard Rock nel 2001. Mi affascinavano i sintetizzatori, ma arrivai al concerto verso la fine, quando attaccarono Don’t Look Back in Anger – giusto prima di culminare con la loro cover di I Am The Walrus. Prima di Don’t Look Back non avevo mai visto nulla di simile. Sicuramente metà del pubblico era inglese, ma la gente cantava e la sensazione fu immensa, molto più grande di qualunque cosa avessi mai ascoltato. Cambiò il mio modo di essere, e in quell’istante decisi di voler far parte di una rock band.

Conosci personalmente i fratelli Gallagher?
BF: Li abbiamo conosciuti, ma in due momenti diversi. Non sono così temibili come crede la gente, in realtà sono molto tranquilli.

Battle Born è il nome del vostro studio, ma anche il titolo del vostro ultimo album. Non è stata la prima volta che avete registrato in quello studio, perché avete deciso solo ora di usare il nome nel vostro disco?
BF: Abbiamo scritto la canzone Battle Born, quindi ci abbiamo pensato. Inoltre, ci è parso un titolo abbastanza forte e abbiamo pensato da subito che fosse quello giusto.

Avete scritto assieme le canzoni, stavolta. Sembra che ognuno di voi contribuisca a qualcosa…
BF: Ed è così. Stavolta ci abbiamo messo più tempo del solito. Speravamo che arrivassero le canzoni giuste. Ci abbiamo messo alcuni mesi a comporre, poi abbiamo registrato e poi ci siamo presi una piccola pausa. La creazione di una sola canzone ci è parsa un motivo valido per ritrovarci in studio.

Come descrivereste l’iter che avete seguito?
MS: Tecnicamente, è iniziato tutto nel maggio del 2011, con delle improvvisazioni e lo sviluppo di alcune di idee, la registrazione di demo, eccetera. Abbiamo alternato concerti e alcune pause.

Questo materiale è molto orecchiabile, ha alcuni elementi che ricordano Day & Age, e un suono epico come quello dei primi dischi. Come definireste Battle Born?
BF: Ci siamo ritrovati in studio con l’intento di riunire tutti gli elementi migliori dei nostri album precedenti, e se sei riuscito a notare questa cosa, vuol dire che ci siamo riusciti. Adoriamo il suono epico di Sam’s Town e le sue chitarre, però abbiamo utilizzato una gran quantità di produttori in fase di registrazione e questo ci ha portati a una varietà molto interessante. Stuart Price, produttore di Day & Age, è stato coinvolto in alcune canzoni e sicuramente si è ispirato ai suoi lavori precedenti. Mi sembra che ci sia una grande varietà di canzoni, stili e arrangiamenti in Battle Born. È una produzione davvero importante, come importante è il lavoro che c’è dietro alla struttura dinamica di alcune canzoni che magari iniziano lentamente per poi trasformarsi in qualcosa di completamente diverso.

Perché avete deciso di riunire tutti questi produttori? Più precisamente Steve Lillywhite, Stuart Price, Damian Taylor, Daniel Lanois e Brendan O’Brien?
MS: Non è stata una cosa voluta in realtà, non volevamo lavorare in questo modo. Si tratta di qualcosa di nuovo per noi. Credo che ogni produttore possegga dei punti di forza peculiari e quindi ognuno ha lavorato con ciò che sa fare meglio di chiunque altro. Stavolta abbiamo giocato un po’ e provato canzoni con tutti loro, ma il risultato è certamente unico e particolare.
BF: È stato molto divertente. Prendiamo per esempio Steve Lillywhite (U2, Peter Gabriel, Rolling Stones). Si dice che abbia lavorato per più di 500 album, ma vedendo l’energia che ci metteva, si poteva facilmente pensare che fosse il suo primo progetto. Quindi è stato meraviglioso lavorare con lui.

Avete chiamato anche la leggenda del rock Brendan O’Brien. È famoso per aver lavorato con gruppi come i Pearl Jam, che hanno suoni più duri, ma qui gli avete accreditato una delle canzoni più dolci, Here With Me. Una sorpresa.
BF: Mi sono divertito molto a farlo lavorare su una canzone come quella, perché è molto capace di farlo. Anche se ha lavorato anche su Runaways, che senza dubbio ha più a che vedere col suo stile.

I vostri album precedenti contengono alcuni grandi successi, vi siete sentiti maggiormente sotto pressione nella realizzazione di Battle Born?
MS: Un po’. Però intendiamo non pensarci. È chiaro che è difficile non pensare che dev’essere di qualità quantomeno uguale, se non addirittura migliore. E allo stesso tempo bisogna solo fare del proprio meglio, sperare di creare qualcosa di migliore senza preoccuparsi troppo. Però è un’idea che probabilmente era radicata nelle nostre menti, nonostante non sia qualcosa di cui discutiamo tutti i giorni. Ma lo teniamo presente.

Sono passati quattro anni dall’ultimo disco. Perché avete aspettato tanto?
BF: Avevamo bisogno di una pausa. Siamo andati in tour dopo l’uscita di Day & Age, ma eravamo in tour da talmente tanto tempo che prenderci una pausa sembrava essere una scelta saggia. Sono passati sì quattro anni, ma due di questi li abbiamo passati in tour. E di noi quattro, tre hanno pubblicato dischi solisti, cosa che implica che abbiamo lavorato instancabilmente. Amiamo il nostro lavoro e quasi tutto viene svolto qui, nei Battle Born studios. È il nostro studio e lo usiamo sempre. Anche se a volte alcune band che vengono in città lo utilizzano, come gli Aerosmith, i Black Eyed Peas e molti altri. È bello ed è vicino casa.

Quali sono stati i momenti più memorabili della vostra storia?
BF: Probabilmente ognuno di noi darebbe risposte diverse, ma ci sono stati momenti grandiosi. Per un gruppo nordamericano, fare sold out al Madison Square Garden è importantissimo. È stato davvero emozionante e ci siamo trovati sempre bene lì. Altro momento importante è stato quando abbiamo suonato a Glastonbury da headliner.
MS: Molti concerti in locali piccoli sono stati meravigliosi, ma quando suoni per un grande pubblico e tutto gira per il verso giusto, ti rendi conto di essere riuscito a creare un qualcosa di speciale con il pubblico, un legame. Allora sì che il momento diventa speciale! Non è semplice come legare con un pubblico formato da 300 o 400 persone, e a volte il sentimento sta in questo; non serve provare queste sensazioni tutte le sere, soprattutto quando suoni davanti a ventimila, quarantamila persone o più nei festival, perché così quando succede, e senti l’energia di tutti che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda diventa tutto più speciale. Il fatto che la gente si riunisca grazie alla musica e si emozioni per le stesse cose è un’esperienza unica.

Il successo del vostro primo album vi è sembrato straordinario, o al contrario vi è sembrato difficile scrivere Sam’s Town?
BF: È stato straordinario, e abbiamo avuto fortuna proprio grazie al grande successo di Hot Fuss, ma allo stesso tempo da quel momento è diventato tutto più difficile. I Franz Ferdinand avevano pubblicato Take Me Out, è stato un periodo emozionante, perché pensavamo di incastrarci perfettamente in quello scenario, con le altre band. Condividevamo molte influenze con i musicisti che esordirono nel nostro stesso periodo, anche se ognuno dava le proprie interpretazioni bizzarre di tutto quello che si ascoltava. Sul piano personale non conoscevamo bene i membri di quelle band. Ma c’è una band di San Diego chiamata The 14’s, ecco, loro sì che sono nostri amici.

Vi piace andare in tour? Lasciare mogli e figli?
BF: Io ho tre bambini, Dave un figlio di 7 anni. Durante il processo di stesura dell’album siamo andati avanti senza problemi, ma diventa difficile quando partiamo per il tour. Col passare del tempo diventiamo un po’ più padroni della situazione e siamo più tranquilli. Il tour del primo album fu interminabile, perché dovevamo presentarci al mondo, ma con quelli successivi la situazione si è progressivamente fatta più tranquilla.

In Heart Of A Girl canti “Daddy, daddy, daddy, all my life/I’ve been trying to find my place in the world”. C’è un approccio esistenziale nei vostri temi? Cosa volete esprimere?
BF: Il testo è il risultato di un’improvvisazione che abbiamo fatto con Daniel Lanois. Lavorare con lui è stato fantastico, e lo abbiamo coinvolto anche in Be Still. Però Heart Of A Girl parla della gente che vuole trovare il proprio posto nel mondo. Specialmente in questa epoca. Siamo giovani, abbiamo tra i 30 e i 35 anni, e siamo apparentemente persone che si sono sistemate. Ma non è così. Io non mi sento ancora un uomo del tutto maturo. Quindi, credo che questa canzone tratti della gente che continua a cercare. Credo che il punto di partenza dei miei testi sia soggettivo e specifico, ma poi i versi si ampliano e alla fine acquisiscono un altro significato.

Avete fatto tutto il lavoro in questo studio, compreso il mixaggio?
MS: Abbiamo lavorato molto qui, ma parte del materiale è stata lavorata in altri studi. Abbiamo lavorato con molti ingegneri durante la fase di mixaggio.
BF: Anche Alan Moulder, che aveva lavorato nella produzione di Sam’s Town, ha mixato alcune tracce.

Riguardo a questa lunga lista di produttori e ingegneri per il mixaggio, è stata una decisione voluta o un suggerimento della casa discografica?
BF: Si tratta di una lista formata da tutta la gente che ammiriamo, molti nomi che ci hanno onorato col loro lavoro. Un privilegio.

Avete contato su almeno cinque diversi produttori…
BF: È così, abbiamo lavorato con tutto il mondo, tranne che con Timbaland (Ride).

Quali sono i vostri pezzi preferiti dell’album?
BF: Runaways e Flesh And Bone. Adoro anche Battle Born.

Cosa pensate attualmente dei vostri dischi precedenti?
BF: Non lo so, giudicare tutto il materiale è molto strano. Però guardandomi indietro, non finisce mai di sorprendermi la grande forza del nostro album d’esordio (Hot Fuss). Forse un paio di canzoni non sono all’altezza, ma come primo disco è impressionante. Molti degli arrangiamenti furono ideati da Ronnie e Mark. In quel periodo avevo appena iniziato ad imparare qualcosa sull’arte della composizione, mentre loro avevano già fatto parte di altre band e, pertanto, avevano già composto parecchio, oltre ad avere qualche anno in più di me. Fu un esordio grandioso e abbastanza folle. Per me, ogni disco nuovo è come una reazione provocata dall’album precedente. Dopo Hot Fuss ci fu Sam’s Town, nome che abbiamo preso da un casinò e hotel di Las Vegas. Quando era adolescente, Mark vedeva quel luogo spettacolare dalla finestra di casa sua. Nessuno sembrava sapere se fossimo inglesi o meno, quindi la mia missione consistette nel mostrare al mondo il nostro essere americani. Non è che parla di torte di mele e Chevrolet, ma la sua direzione differisce abbastanza da quella del primo album, nonostante sia impossibile riuscire ad allontanarci dalle nostre influenze di base, che nel nostro caso sono britanniche. In quel periodo abbiamo iniziato ad emozionarci molto con musica tipicamente nordamericana come quella di Tom Petty, Tom Waits, e ovviamente Bruce Springsteen.

Si sente l’influenza di Bruce, soprattutto nelle ballate più recenti.
BF: È vero.
MS: Però la novità di Sam’s Town fu la combinazione di queste influenze. Bling per esempio, mi sembra del genere americano con un tocco di Depeche Mode.
BF: Sam’s Town fu un esperimento strano e originale, e non so se altre band hanno provato cose simili. When You Were Young è un pezzo rock che può sconvolgerti, ma il cambio che avviene verso la metà ricorda gli Alphaville. Mi sembra che nessuno si sia cimentato con la combinazione di questi stili. Poi è arrivato Day & Age, che nella nostra esperienza costituisce un disco pop relativamente sperimentale. Stuart Price aveva già realizzato un grandioso remix di Mr Brightside – oltre al recente remix di grande successo di Chaka Khan. Ha prodotto Day & Age e ci ha condotto verso nuovi territori.

Avete suonato davanti a Barack Obama. Come vi è sembrato?
MS: Sì, abbiamo suonato alla Casa Bianca il 4 Luglio.
BF: Ogni 4 Luglio, la Casa Bianca offre una grande festa in uno dei suoi patii; vengono invitati un comico e una band, quindi abbiamo colto l’opportunità. È stato molto bello.

Siete conosciuti anche per il vostro stile nel vestire: completi e abbigliamento colorati. Vi interessate molto all’aspetto estetico della band?
BF: Penso di sì, e credo che abbiamo un gusto abbastanza decente. Per me, lo stile è sempre andato di pari passo con la musica. Se, per esempio, si pensa a Ian McCulloch (degli Echo & The Bunnymen), le prime cose che vengono in mente sono il suo cappotto largo e i suoi occhiali. E se si parla dei Doors, nella mia testa parte Light My Fire, ma al tempo stesso immagino Jim Morrison senza camicia. Oppure Morrissey: non si può non pensare alla sua pettinatura, o a qualcosa che ci permette di collocare le band. Per me ha sempre avuto senso. È qualcosa che ci nasce da dentro quindi ci proviamo.

Quando i Coldplay e gli U2 hanno suonato a Las Vegas, hanno incorporato alcuni versi di vostre canzoni nelle loro, e voi eravate nel pubblico. Vi siete sentiti onorati?
BF: È stato incredibile, gli U2 sono la band che ci unisce, sono i re. Una volta ho letto una frase che diceva: “Dall’uscita di The Joshua Tree, tutte le band che sono esistite hanno dovuto vivere nell’ombra di questo album”. Mi affascinò. Ed è vero che siamo tutti la maledetta ombra di questo disco, che è un vero mostro. Ci hanno “rubato” il deserto, il Mojave, facendo un servizio fotografico nella Death Valley, non molto lontana da qui. Ma sono una band fenomenale, e il fatto che conoscano e apprezzino le nostre canzoni non ha prezzo.

Avete mai suonato assieme?
BF: Abbiamo aperto i loro concerti in Polonia, Amsterdam e in Galles.

E i Coldplay? Trovate delle somiglianze con la vostra musica?
BF: Credo che nei Coldplay si possa trovare qualche elemento che ricorda i Killers; secondo me è questa la vera direzione (ride). Sono una grande band; amo il loro chitarrista e il batterista ha la voce di un angelo. Sono meravigliosi.