Skip to main content

ArtistDirect [28-11-2017]

Ronnie Vannucci Jr. parla del processo di scrittura della band, la loro incapacità di lasciare Las Vegas alle spalle, e il nuovo album

A Settembre i Killers hanno pubblicato Wonderful Wonderful, il loro primo album negli ultimi cinque anni. Imbottito di empatia, compassione e qualche accenno ironico ai loro primi giorni, l’album è diventato il primo della band a raggiungere la vetta della classifica degli album di Billboard.

In esso la band scava nelle proprie radici a Las Vegas, mentre cerca di capire cosa significhi essere un uomo nel mondo moderno. La loro volontà di non prendersi troppo sul serio e di dare un’onesta visione della loro sfrontatezza di quando erano giovani, è ciò che fa risaltare Wonderful Wonderful in mezzo ad un già impressionante catalogo pieno di successi.

Christopher Friedmann: Ci troviamo qui a parlare perché avete appena pubblicato un nuovo album, Wonderful Wonderful. Adesso che le acque si sono calmate e avete visto la posizione in classifica, com’è l’atmosfera nel gruppo? Ne siete ancora entusiasti?

Ronnie Vannucci Jr.: Sì, ne siamo davvero entusiasti. Inizieremo il tour la settimana prossima e non vediamo l’ora… abbiamo suonato ad un sacco di festival e non molti concerti nostri e quindi dovevamo cercare di accontentare il pubblico, quindi adesso e io Brandon non vediamo l’ora di indossare l’arco emotivo dell’album.

CF: Certamente. I concerti nei festival sono una sorta di “Suoniamo i successi”…

RV: Si, bisogna tenere in considerazione che non tutti sono lì per vedere te, e quindi meglio suonare i pezzi più famosi.

CF: Questo è stato il primo album in cinque anni. Cosa vi ha convinti che era tempo di tornare?

RV: Credo sia stata una combinazione di… ci abbiamo messo così tanto perché alcuni avevano bisogno di una pausa, beh Mark e Dave ne avevano bisogno [ride], e la cosa è andata per le lunghe. Io, Brandon e Mark abbiamo pubblicato degli album nostri. Prima di questi abbiamo anche fatto un best of e un album di Natale e li abbiamo portati in tour, e poi c’è stato ancora prima un tour di due anni per Battle Born, quindi non siamo stati poi così fermi come si legge in giro. Siamo stati piuttosto occupati.

Un altro motivo è che ci vuole del tempo. Come capisci cosa farai… cosa fare che possa essere diverso ma che ti rappresenti ancora e abbia valore? Che direzione prendere? Pensare a tutto questo e scrivere canzoni e cercare una direzione, c’è tutto un contorno, non ti metti semplicemente lì a scrivere. A volte quando facciamo così sembriamo una band anni ’70. Abbiamo avuto bisogno di tempo per sperimentare e provare nuove strade. Dovevamo capire quale prendere e dove volevamo arrivare.

CF: Beh ci siete riusciti molto bene. Questo è stato il vostro primo numero uno…

RV: Sì, è follia.

CF: Quali erano le vostre aspettative quando siete entrati in studio? Qualcosa di simile?

RV: No. Volevamo semplicemente fare qualcosa di buono, che sapevamo fosse buono. Credo ci sia stato un momento in cui eravamo… c’è stato un salto nel vuoto quando abbiamo capito che per noi era più importante fare qualcosa di buono e onesto e di cui potevamo ritenerci soddisfatti piuttosto che avere il produttore più popolare per avere un successo in radio.

Ma non è divertente, molte canzoni, alcune delle nostre canzoni più di successo non lo sono… non sono canzoni che fanno ridere, ma sono comunque leggere. “Somebody Told Me” è una di queste, e ci ha aiutato a pagare le bollette per un bel po’ di tempo. E “The Man” è stata una cosa simile, solo che deriva da un ragionamento più adulto. Dal punto di vista dei testi sapevamo meglio dove volevamo arrivare rispetto a dove eravamo, e quindi ci siamo sentiti tranquilli nel gettare un po’ di merda sul tipo di persona che era Brandon, nello specifico a 22-23 anni. È stato divertente. È stata una cosa leggera. Ci siamo divertiti molto a farla. Ci abbiamo lavorato tanto quanto le altre canzoni, ma con un processo più divertente rispetto alle altre.

CF: Mi stavo chiedendo se puoi guidarci nel vostro processo di scrittura? Perché, come hai detto, siete tutti occupati al di fuori della band, quindi anche solo trovarvi tutti assieme deve essere difficile. Come inizia tutto?

RV: Ad essere sincero, credo che ogni canzoni sia un po’ diversa dalle altre. Brandon ha certamente avuto una presenza – piacevole – maggiore nella scrittura. Si è trasformato in un creativo. Ce l’ha in lui. E quando qualcuno ha quell’energia e tu puoi sfruttarla, l’unico obiettivo è arrivare in cima alla montagna. L’obiettivo non è mostrare agli altri membri della band quante canzoni puoi scrivere o roba simile. Per me è stato, “Oh, è fantastico. Adoro quello che sta facendo.” Riesco a collaborare molto più facilmente quando non ci sono ego coinvolti, quindi non è stata una situazione dettata dal suo ego, aveva semplicemente più idee di noi. Quindi molte volte iniziamo un album così.

“The Man” è stata un colpo di fortuna. Una cosa totalmente diversa. In realtà siamo stati io e Jacknife mentre cazzeggiavamo in studio con dei loop, e siamo usciti con la base, e poi Brandon aveva un’idea per una canzone intitolata “The Man” che era leggermente diversa rispetto a quella su cui stavamo lavorando, e così abbiamo messo quel testo su quella base e poi Brandon ci ha messo il ritornello, uno migliore. È sempre diverso. È sempre tutto un po’ diverso. Alcune canzoni nascono da jam session, è divertente, e altre sono pre-preparate.

CF: Parlando di quel momento in cui tu e Jacknife stavate cazzeggiando con i loop, e Brandon aveva una canzone diversa, c’è stato un momento in cui tutti i pezzi si stavano incastrando e hai capito che era quella la direzione che volevate seguire con l’album?

RV: L’ho già detto in altre occasioni, ma credo che la canzone che ci ha dato una sorta di appoggio [ride] o una sorta di sostegno, una sorta di struttura, sia stata “Rut”. Quando siamo arrivati a quella canzone, quando stavamo cercando di metterne i pezzi assieme, ho sentito come se tutti fossimo arrivati a pensare, “Ok, questa sembra la mossa giusta,” sia dal punto di vista del testo che della musica.

CF: Las Vegas sembra essere un tema presente in tutto l’album, come lo è già stato in passato. È la città natale tua e della band. Come influenza il vostro processo creativo?

RV: In questo scenario, sì, e credo che Las Vegas sia una co-star del tema di questo album. Credo che se ci fossimo trovati in un’altra città, magari con gli stessi muri e blocchi personali, sarebbe stato lo stesso, forse. È impossibile dirlo con certezza. Ma mentre lo sto dicendo penso anche che forse non lo sarebbe stato. Credo che, anche se è stata un’ottima co-star e tema, che piaccia o meno, Las Vegas abbia senza dubbio messo le radici in noi e la vita che abbiamo fatto qui ha lasciato un marchio indelebile che non possiamo cancellare.

CF: Gli artisti oggigiorno sembrano esprimere i propri pensieri più che mai. Come pensate che debba comportarsi un artista nel 2017?

RV: Credo che tutti entrino nel mondo della musica per motivi diversi. Alcuni la vogliono usare come pulpito o megafono per la loro voce o causa. Altri la vogliono usare come uno scenario cappa e spada in cui vogliono scappare. L’unico modo per per ottenere un bilanciamento personale è scrivendo canzoni. E rispetto le difficoltà di tutti, o la malattia in alcuni casi. Quello che va di moda adesso va di moda adesso, ma il quadro è più grande, basta zoomare indietro di cinquant’anni, credo che tutti arrivino alla musica da strade diverse e riusciamo a creare una canzone per motivi diversi.

CF: Nel corso della tua carriera hai fatto un bel po’ di esperienze, ma mi chiedevo se potessi raccontarci il momento che ti ha colpito di più, quello che ti ha ricordato perché stai facendo quello che fai?

RV: Ogni tanto facciamo questi meet & greet, a volte con un bambino o una persona malata, e sono in ospedale, e quando si sentono da schifo ascoltano musica. La televisione è troppo noiosa, non è una via di fuga, e così chiudono gli occhi e ascoltano la musica. E a volte ascoltano la nostra e, anche se non direi mai che sono entrato nel mondo della musica per questo, essere in grado di aiutarli in qualche modo, che sia guidando la mattina o per qualcuno malato, in qualunque modo tu riesca a comunicare con qualcuno e arrivare ad aiutarlo, ti senti gratificato come mai prima.

Mi sento davvero gratificato di aver in qualche modo arricchito la vita di qualcuno. È una bella cosa. Non è il motivo per cui faccio quello che faccio, ma è la situazione che trovo più gratificante, perché è diverso dal dire semplicemente, “Hey, adoro la tua band.” Sono sicuro che non tutti hanno voglia di parlarne, ma se qualcuno dice, “Mi hai davvero aiutato,” è bello. Ha un valore.

FonteArtistDirect